IL PRETORE Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale nei confronti di Mohamed Mouduch imputato del delitto previsto e punito dagli artt. 25, 282, 301 e 304 del t.u. del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43. I. - La sentenza della Corte costituzionale del 6 giugno 1974, n. 164, e l'interpretazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione. La Corte costituzionale con sentenza del 6 giugno 1974, n. 164, ha dichiarato non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 (nella parte in cui prevede che le disposizioni penali delle leggi finanziarie si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorche' le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione) in relazione all'art. 3 della Costituzione, avendo ritenuto che la deroga apportata ai principi comuni in tema di successione di leggi penali non crea irrazionali disparita' di trattamento fra i contravventori, essendo la norma ispirata alla tutela dell'interesse primario alla riscossione dei tributi (che e' costituzionalmente differenziato ed esige una tutela particolare) e non esistendo alcun ostacolo di carattere costituzionale, poiche' l'art. 25, secondo comma, della Costituzione vieta la retroattivita' della legge penale, ma non concerne l'ultrattivita', che e' disciplinata dall'art. 2 del c.p. La Corte ha quindi aderito a quella dottrina secondo cui la garanzia costituzionale investe le leggi contenenti nuove incriminazioni (e in forza di una interpretazione letterale e razionale dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, le leggi modificatrici in peius di un'incriminazione precedente) e non le leggi abrogatrici, la cui efficacia retroattiva, non contenendo ne' un precetto penalmente sanzionato, ne' una sanzione penale, senza essere ovviamente imposta, e' consentita tuttavia ai sensi dell'art. 75, terzo comma, della Costituzione (cfr. Padovani, Foro italiano '75, parte prima, pag. 30). Altra dottrina sostiene invece che il principio base che regola la successione delle leggi e' quello del favor libertatis, di cui l'irretroattivita' e' uno dei corollari: il legislatore costituente, come risulta anche dai lavori preparatori, avrebbe inteso fare un'applicazione particolare del principio sovraordinato riguardante la maggiore tutela della liberta' del cittadino. Ne consegue che le norme che contrastano col principio di irretroattivita', ma si ispirano direttamente al favor libertatis non solo non sono in contrasto con la Costituzione, ma sono materialmente costituzionali, in quanto concernono i diritti fondamentali dei cittadini (Pagliaro, Enc. diritto, Voce Legge penale nel tempo, pagg. 1064 e segg.). Orbene, se si preferisce quest'ultima interpretazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, dovrebbe concludersi che "l'esistenza di un fondamento astrattamente giustificativo qual e' l'interesse fiscale particolarmente tutelato dalla Costituzione, assunto dalla Corte quale supporto di una ragionevole differenziazione di trattamento tra autori di reati comuni ed autori di reati tributari rispetto alla retroattivita' della legge penale piu' favorevole, non avrebbe nessuna forza di resistenza, qualora la questione di legittimita' venisse impostata in rapporto all'art. 25, secondo comma, della Costituzione interpretato secondo l'ampia portata della quale si e' detto" (Bricola, Commentario alla Costituzione, pagg. 284-285). Si pone pero' a questo punto il problema se la Corte costituzionale, la cui funzione di controllo sulla attivita' legislativa ha natura giurisdizionale e deve quindi strettamente attenersi alle norme che assume a paradigma di controllo, possa adottare questa ultima interpretazione (cfr. sul punto cfr. Cheli, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano, 1968, pag. 100). Al riguardo va osservato che l'interpretazione delle norme costituzionali e' condizionata dalla loro particolare natura, poiche' la Costituzione si raccoglie intorno ad un nucleo centrale costituito dai principi che piu' direttamente esprimono quei valori politici in cui trova il suo fondamento. A questi ultimi, quindi, che possono essere formulati espressamente nel testo scritto o esservi impliciti, deve fare riferimento, ed in particolare non ai fini delle forze che in un dato momento sono depositarie del potere, bensi' a quelli che appaiono i motivi essenziali del regime politico, come si sono affermati storicamente e come si sono venuti traducendo sul piano giuridico (Pierandrei, L'interpretazione della Costituzione, Studi in onore di Rossi, pagg. 496-497). Orbene, il problema dell'individuazione del nucleo dei principi politici espressi dalla costituzione e della loro rilevanza sul piano del diritto e' il problema della costituzione materiale, problema che va affrontato alla radice se si vuol far chiarezza su quello dell'interpretazione costituzionale, che ha una fondamentale importanza per la soluzione della questione che qui interessa. II. - Sul concetto di costituzione materiale. La formulazione del concetto di costituzione materiale trae origine dall'esigenza di ricercare il criterio in base al quale assicurare l'unificazione del sistema giuridico (di ricondurre cioe' ad unita' di sistema il complesso delle norme), non potendo questo trarsi dalle disposizioni inserite nel testo della costituzione che si presenta frammentario o lacunoso (Mortati, La Costituzione in senso materiale, Milano, pagg. 83 e segg.), nonche' la causa dell'efficacia della costituzione formale, attesi i fenomeni di effettivita' che si pongono spesso in contrasto con le disposizioni formali. Essa e' individuata in un elemento strumentale, la forza politica (negli ordinamenti contemporanei il partito politico), e in un elemento materiale, lo scopo politico che reggono l'ordinamento positivo, garantendone la "positivita'" o vigenza. Lo scopo, che deve essere cosi' rigido da porsi come punto fermo attraverso le oscillazioni dei rapporti di forza, ma anche cosi' elastico da consentire gli adattamenti richiesti, e' assunto attraverso una norma (la norma di scopo) nella costituzione e predisposizione il contenuto delle disposizioni formali, ma opera anche in maniera immediata e diretta. Il rapporto tra costituzione materiale e costituzione formale e' normalmente di corrispondenza, nel senso che la seconda tende a rispecchiare l'ordine sottostante, essendo espressione di una situazione di equilibrio che tende a stabilizzare e a garantire. Variando pero' i rapporti di forza ed avendosi un contrasto tra costituzione scritta e costituzione materiale, prevale quest'ultima, essendo l'unica, per essere effettivamente vigente, cui possa spettare carattere giuridico (Mortati, La costituzione in senso materiale, Milano 1940, pagg. 84 e segg.). Ne consegue pertanto che le disposizioni formali sono valide solo e nei limiti in cui non contrastano con la norma contenuta nel fine fondamentale e che da parte degli organi dello stato vi e' obbligo di applicare la norma che discende immediatamente dal fine dominante, derogando alla legge formale e colmandone eventualmente le lacune. Questa dottrina ha suscitato notevoli riserve per la natura garantista della costituzione vigente, tanto che si e' prospettato il dubbio di una sua possibilita' di adattamento ad una concezione del potere diversa da quella del tempo in cui la stessa fu formulata. La costituzione vigente si pone infatti come limite alle forze dominanti, a garanzia dei singoli e delle minoranze e non puo' quindi basare su di esse la propria vigenza. Ne' tantomeno puo' l'interprete rifarsi, in deroga alla legge formale, al fine del partito dominante. D'altra parte, le norme di garanzia, per essere vigenti, dovrebbero costituire il nucleo della costituzione materiale. Il problema viene superato da quella dottrina che concepisce la norma di scopo come la risultante dei fini delle forze politiche presenti nell'ordinamento e ritrova nel compromesso tra queste l'essenza del fenomeno costituzionale. Le norme di garanzia a tutela dei diritti civili e politici del singolo e dei gruppi (partiti e sindacati) che "istituzionalizzano" nei regimi democratici il compromesso non sono quindi altro che un logico sviluppo della costituzione stessa, anzi la costituzione tout-court, unitamente alle norme programmatiche che caratterizzano il regime. Essa viene definita come "quel complesso di istituti giuridici positivamente validi ed operanti che realizzano un fine politico che e' la risultante dei diversi fini perseguiti dalle varie forze politiche in lotta fra loro in un dato paese e in un dato momento storico", sicche' sotto questo aspetto puo' dirsi che tutte le costituzioni sono frutto di compromesso. Mai accade infatti che il fine della forza dominante possa essere attuato integralmente senza interferenze da parte delle altre forze politiche, o per lo meno senza che il partito dominante ritenga di dovere moderare tatticamente o strategicamente, le sue pretese, appunto per evitare le interferenze che sarebbero provocate dalle controspinte in quella parte della pubblica opinione che segue un altro fine. A questa dottrina puo' pero' muoversi l'obiezione che, se e' vero che entro certi limiti il partito totalitario e' costretto ad apportare al fine politico temperamenti e modificazioni, a tali temperamenti e modificazioni giunge unilateralmente e non attraverso un patto o un compromesso con le altre forze politiche, come del resto viene riconosciuto quando si afferma che comunque il partito quanto meno deve moderare le sue pretese (Barile, La costituzione come norma giuridica, pagg. 40-41). Del resto cio', a ben vedere, non e' negato dalla dottrina criticata, quando sottolinea che lo scopo politico deve essere cosi' rigido da porsi come un punto fermo attraverso le oscillazioni dei rapporti di forza, ma anche cosi' elastico da consentire gli adattamenti richiesti: se infatti lo stato sorge quando una forza politica prevale sulle altre, riuscendo ad imporre la propria forma di ordine (Mortati, La Costituzione cit. pag. 76 e 87) e' evidente che non sono ammessi compromessi di sorta in ordine al nucleo fondamentale dello scopo politico e che le oscillazioni dei rapporti di forza non possono non coincidere con le maggiori o minori interferenze delle forze politiche su cui e' prevalsa. Non sembra quindi che il compromesso sia di per se' un elemento essenziale della costituzione. Di compromesso invece e' la costituzione vigente per scelta delle forze politiche costituenti e le norme che rivelano tale natura sono come e' stato esattamente rilevato "quelle che stanno a garanzia dei diritti civili e politici dei singoli e dei gruppi perche' rappresentano i limiti posti, (questi si') per patto espresso, contro il fine per sua natura totalitario del partito dominante, qualunque tinta esso abbia, a garanzia della libera espressione ed attivita' delle forze di minoranza". Tali norme pero', non costituendo il compromesso la essenza del fenomeno costituzionale, devono essere garantite e tale garanzia e' stata raggiunta attraverso una restaurazione dello stato parlamentare, cioe' attraverso una strutturazione delle istituzioni costituzionali che trascende le singole forze politiche: alla caduta del fascismo i partiti si costituirono in Comitato di liberazione nazionale ed instaurarono la nuova forma di stato. Segui' quindi la specificazione di funzioni e di poteri che strutturo' lo stato in modo da attuare il fine di garantire la pluralita' dei partiti (questi avrebbero ottenuto in libere elezioni una rappresentanza proporzionale al consenso e il Governo avrebbe dovuto ottenere la fiducia del Parlamento) che, in seno all'ordinamento avrebbero assunto la veste giuridica di associazioni private: non piu' forze politiche costituenti, ma forze politiche soggette all'ordinamento. Quanto al rapporto tra forze di instaurazione ed organi costituzionali dello stato, la forza politica delle prime si e' trasferita interamente nei secondi. I poteri costituzionali sono stati cioe' il prodotto della trasformazione del potere originario, attraverso un processo ad esso interno: il C.L.N. si pose come l'organo destinato a sostituire provvisoriamente le camere e si attribui' il potere di designazione del governo della corona; indette le elezioni, il Parlamento, in cui le forze politiche furono rappresentate in proporzione ai suffragi elettorali, prese il posto del C.L.N. Si e' avuta cosi' quella specificazione di poteri e di funzioni cui si e' sopra accennato ed a cui si riferisce la dottrina della costituzione materiale (lo stato infatti sorge gia' quando la forza politica si afferma in maniera costante in seno alla collettivita' anche al di fuori di una specificazione di funzioni e di poteri). I poteri costituiti quindi altro non sono che il necessario e stabile assetto che assume il potere originario dopo che e' prevalso sulle forze antagoniste e si e' posto come governo dello stato. Il complesso degli organi costituzionali dello stato, oltre che una specificazione delle funzioni statali sono uno strumento per far si' che il fine delle forze dominanti si attui nel rispetto delle garanzie costituzionali. Anche in questa forma di stato infatti il fine politico delle forze di maggioranza pervade le funzioni dello stato, che sono espressione della funzione di indirizzo politico, ma esso non puo' operare in maniera immediata e diretta, bensi' attraverso il corretto funzionamento degli organismi costituzionali, in particolare attraverso le deliberazioni del Parlamento. Il sistema costituzionale appare cosi' alle forze politiche come limite o garanzia, a seconda che siano di maggioranza o di minoranza. Consegue da quel che si e' detto che il dualismo tra forza politica ed organi dello stato non ha carattere di necessita', ma e' proprio di alcune forme storiche di stato totalitario ove la forza costituente, dopo aver espresso gli organi dello stato, a seguito della specificazione di funzioni e di poteri di cui si e' parlato, conserva una posizione di preminenza nell'ordinamento. III. - Istituzione e norme. Chiarito il rapporto tra forze politiche ed organi costituzionali dello stato e la diversa accezione del termine forza politica (che instaura lo stato e che opera all'interno dell'ordinamento), resta da individuare il rapporto tra istituzione e norma, per intendere il quale bisogna rifarsi all'origine dello stato parlamentare, essendo lo stato dei partiti un'evoluzione di questo negli stati ove non si e' affermato un partito totalitario (come sara' meglio dimostrato in seguito) ed una restaurazione dello stesso ove un partito totalitario si e' invece affermato. A tal fine occorre individuare la forza politica che vi ha dato origine. La dottrina della costituzione materiale infatti individua con riguardo allo stato moderno le forze politiche prima nella monarchia assoluta e poi nel partito, inteso come "associazione che, assumendo come propria una concezione generale comprensiva della vita dello stato in tutti i suoi aspetti, tende a tradurla nell'azione statale" (Mortati, La Costituzione cit. pagg. 84-85). Viene pero' cosi' saltata quella fase storica dello stato parlamentare in cui i partiti, sorti nel Parlamento, non erano ancora sorti nella societa' con tali caratteristiche. Orbene la forza politica che ha dato origine allo stato parlamentare, il cosiddetto terzo stato, aveva la sua sede istituzionale nel Parlamento e fu il progressivo affermarsi della forza politica di quest'ultimo che ha portato ad una diversa forma di stato: dallo stato assoluto in cui tutti i poteri di direzione politica erano concentrati nel sovrano, si passo' allo stato costituzionale (in cui il potere del Re era in contrapposizione ad un altro centro di unificazione, il popolo, e il sovrano poteva manifestare la propria fiducia ai ministri anche quando la camera elettiva fosse loro contraria e negare la propria sanzione alle leggi di iniziativa parlamentare) ed infine allo stato parlamentare, quando il Parlamento prevalse definitivamente sulla Corona. Il mutamento della forma di stato si spiega quindi, sulla base della teoria della costituzione materiale, con la prevalenza di una forza politica, il Parlamento, su un'altra, la corona, a seguito della quale si vennero a creare tra di essi dei rapporti, le cui regole furono determinate dalla posizione di preminenza del primo. Tali regole, che son denominate convenzioni, non denotano quindi un accordo formale, ma una pratica accettata mediante consenso tacito, sostanzialmente imposto dalla forza politica che e' prevalsa: il sovrano e' obbligato a scegliere come Primo Ministro il leader del partito che ha vinto le elezioni e a nominare i ministri da esso designati, a seguire le proposte del gabinetto, compresa quella di sciogliere la camera dei comuni, a sanzionare le leggi approvate dal Parlamento e a convocare questo annualmente; il Governo e' obbligato a rispondere alla camera elettiva per cio' che attiene alla politica generale e a dimettersi o a chiedere lo scioglimento di tale camera, se questa l'abbia posto in minoranza su una questione di grande rilievo (cfr. Treves, le convenzioni costituzionali, ENC. Dir. pag. 524). L'ordinamento costituzionale inglese rientra quindi nella categoria della "formazione consuetudinaria" di diritto pubblico; e' cioe' una struttura istituita senza la previa posizione di una norma che "la crei e la disciplini" e rispetto alla quale la consuetudine e' considerata come il complesso dei criteri secondo cui si svolge la sua attivita' (Orestano, Dietro la consuetudine, pag. 528); regola dell'azione degli organi costituzionali, che deriva dalla struttura dell'ordinamento costituzionale, caratterizzato dalla posizione di preminenza del Parlamento. Essa (la regola) e' quindi immanente all'istituzione: regola "strutturale" del sistema parlamentare e' il rapporto di fiducia tra Parlamento e Governo, dovendo l'attivita' del secondo essere sottoposta al controllo del primo, una volta che questo e' prevalso sulla corona; regola "strutturale", derivante dalla struttura collegiale di quest'organo e' anche quella sulla formazione delle leggi, cioe' la regola della maggioranza, unica forma possibile di deliberazione di un organo collegiale, atteso che la regola dell'unanimita' avrebbe un effetto paralizzante. Sulla base di questa regola, all'interno del Parlamento si sono formati i partiti, rendendosi possibile la precostituzione di una maggioranza di parlamentari con un programma comune. Con la costituzione dei partiti come organizzazioni agenti in seno alla societa' che elaborano un programma da tradurre sul piano giuridico-istituzionale si ebbe un ulteriore sviluppo del sistema parlamentare in quanto il partito che ottiene la maggioranza dei seggi puo' tradurre in leggi il proprio programma. Il Parlamento e gli altri organi costituzionali non fondano dunque la loro forza politica sui partiti, ma al contrario, la forza politica intesa come potere effettivo, ovvero come sovranita', appartiene agli organi costituzionali dello stato; ed e' attraverso questi che i partiti che hanno avuto la maggioranza dei consensi del corpo elettorale possono determinare la politica nazionale: il partito come organizzazione sociale e' "forza politica" che elabora un piano di organizzazione della societa', ispirata a determinati valori; la trasposizione sul piano giuridico-istituzionale del programma avviene attraverso le regole dell'attivita' parlamentare, espressione questa della sovranita' dello stato. La forza politica e' quindi, a livello istituzionale, del Parlamento ed assume come contenuto il programma delle forze di maggioranza. Viene cosi' ad essere verificato il rapporto tra forze politiche ed organi dello stato e risolto il problema del rapporto tra istituzione e norma. Dalla analisi che e' stata fatta della costituzione inglese, si e' visto infatti come essa rientri nella categoria della "formazione consuetudinaria", che puo' essere considerata come norma e struttura: la struttura crea le norme per le singole componenti (gli organi costituzionali), queste trovano nella struttura la necessita' dei loro componenti. Tali norme possono essere espresse o, come nel caso delle costituzioni consuetudinarie, inespresse. Pero', anche nel caso in cui sono espresse in proposizioni normative, dal sovrano nelle costituzioni ottriate, o dal potere costituente, esse trovano la loro effettivita' nell'attualita' delle strutture costituzionali e solo apparentemente sono espressione di un potere ordinativo (vedi sopra sulla trasformazione del potere costituente nei poteri costituiti). Bisogna pero' distinguere tra norme inerenti alla istituzione (quelle che sono state definite norme strutturali e quelle che invece ne costituiscono un ulteriore sviluppo): inerente, ad esempio, alla struttura e' la norma fondamentale che riguarda il rapporto di fiducia, espressa, o meglio "dichiarata", nella accezione che ne da' il Romano, all'art. 94, primo comma, della Costituzione, mentre le altre di cui all'art. 94 regolano l'attivita' degli organi costituzionali in ordine a tale rapporto. Sono queste le norme che ruotano nell'orbita dell'istituzione e del suo principio normativo (il Mortati, nel criticare la teoria del Romano, ha rilevato che "il principio vitale di cui parla quest'ultimo, non potrebbe adempiere alla sua funzione di tenere uniti i vari elementi da cui risulta, non potrebbe formare un sistema, se non fosse (esso stesso norma), norma senza dubbio diversa da quella disciplinante i comportamenti, ma purtuttavia ad esso analoga la funzione" (La Costituzione in senso materiale, ct., pagg. 61 e 62). IV. - Ordinamento generale e ordinamento consuetudinario. La concezione istituzionale si adatta quindi all'ordine costituzionale, ove prevale nettamente la organizzazione: le norme (del secondo tipo) sono manifestazioni tardive e sussidiarie che possono mancare e la sanzione e' immanente all'ordinamento. Nelle costituzioni scritte, queste norme, che attuano i principi espressi dalle norme fondamentali che sovrintendono all'attivita' degli organi costituzionali (e che non sono altro che l'attuazione e lo sviluppo degli stessi), costituiscono propriamente la legge costituzionale o costituzione formale. Sotto questo aspetto, soprattutto nelle costituzioni rigide garantite, tendono a stabilizzare e garantire tali principi, come precisato dal Mortati (vedi supra). Diversamente deve dirsi dell'ordinamento giuridico generale, cioe' l'organizzazione sociale in cui la istituzione consiste, che e' posta, come si e' visto, dal potere dello stato attraverso la norma (vedi supra a proposito della forza politica che attua il proprio piano di organizzazione della societa' attraverso l'attivita' parlamentare). Si spiegano cosi' quelle che sono state definite "felici ambiguita'" nell'opera del Romano che lasciano pensare all'ordinamento come a qualcosa di gia' regolato e sembrerebbero contraddire che il diritto e' l'organizzazione sociale materialmente intesa (scopo del diritto e' l'organizzazione sociale, l'istituzione esiste e diviene tale in quanto e' mantenuta in vita dal diritto (cfr. Modugno, Enc. del diritto, Voce Istituzione, pag. 92); le norme, da un lato sono il mezzo di cui l'istituzione si serve, dall'altro sono manifestazioni tardive e sussidiarie che vengono poste eventualmente dopo che l'istituzione si e' formata). Alla base di tale ambiguita' e' la mancata distinzione tra ordinamento generale e ordinamento costituzionale; l'organizzazione, per quanto riguarda i rapporti intersoggettivi, e' attuata attraverso le norme e consiste in coordinazione e subordinazione di comportamenti, mentre a livello costituzionale le norme sono espressione dell'organizzazione costituzionale. Chiarita l'immanenza della norma nell'istituzione, va pero' rilevato che la teoria istituzionale rispecchia anche gli ordinamenti arcaici, che consistono anch'essi in formazioni consuetudinarie. Se infatti si intende la consuetudine come fatto normativo e se essa si distingue dal costume perche' e' essenziale alla costituzione ed alla conservazione del gruppo sociale (Bobbio, La consuetudine come fatto normativo, Padana, 1942), essa non e' altro che quel complesso di comportamenti necessari e quindi doverosi per la costituzione e la conservazione del gruppo sociale. E' questo il carattere essenziale della consuetudine, che consiste obbiettivamente in una ripetizione costante ed uniforme di comportamenti. La "giuridicita'" quindi, in questi ordinamenti si trova in uno "stato diffuso ed inespresso", in una fase in cui il diritto vive nel concreto storico dell'ordinamento e viene dichiarato in forma precettiva ad opera di giuristi ed esperti che prospettano in termini di "dover-essere" quanto gia' si verifica nel concreto delle istituzioni, venendo cosi' ad invertire per il futuro il rapporto tra istituzioni e norme. L'attivita' del giudice non attribuisce quindi valore giuridico, ne' tantomeno crea le formazioni consuetudinarie (Orestano, I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica - Giappichelli 1962, pag. 149), e sara' solo in un secondo momento, nelle fasi piu' avanzate della civilta', che da un potere autoritario (sul cui processo di formazione non ci si puo' soffermare in questa sede) verranno imposti determinati comportamenti per l'organizzazione di un corpo sociale piu' vasto, sia attraverso atti normativi, sia attraverso la posizione di norme da parte dei giudici attraverso la risoluzione di controversie, che modificano l'originario tessuto normativo. L'osservanza, sia pure non piu' spontanea, e la ripetizione uniforme e costante di tali comportamenti, non differisce quindi fenomenologicamente dalla consuetudine se non per il fatto che, invece di essere necessari, o meglio inerenti alla conservazione di una societa' naturale, si' da identificarsi con essa, sono necessari alla conservazione di una societa' costituita da un potere autoritario. Ordinamenti consuetudinari e non, differiscono quindi solo per dei caratteri secondari, consistendo fondamentalmente entrambi nella ripetizione costante ed uniforme di comportamenti necessari alla conservazione del gruppo sociale. V. - Sull'interpretazione delle norme ordinarie e delle norme costituzionali. Le notazioni che precedono consentono di delineare la differenza tra interpretazione delle norme ordinarie e delle norme costituzionali, che e' condizionata dalla diversita' degli ordinamenti cui appartengono: poiche' l'ordinamento generale, negli stati di legislazione, e' posto dalle norme scritte (la consuetudine deve essere riconosciuta dalla legge) solo attraverso di esse puo' essere conosciuto. L'interpretazione quindi dalle singole norme risale ai principi piu' generali e, determinati tali principi, si ridiscende alle norme, pervenendo cosi' ad una piena conoscenza del loro significato e della loro portata. L'ordinamento costituzionale invece non e' posto dalle norme, ma pone le norme. Ne consegue che una interpretazione che tenga in considerazione solo le norme espresse e costruisca l'unita' del sistema solo attraverso un processo di analisi e generalizzazione di tali norme, come ha osservato il Mortati, incontra la difficolta' "derivante dal fatto che a volte, il testo o le leggi complementari si presentano frammentari o lacunosi, si' che da essi non e' dato desumere la disciplina di materia che dovrebbe esservi inclusa, o comunque il criterio capace di ricondurre ad unita' di sistema il complesso delle norme" (La Costituzione, cit. pagg. 27 e 28). Essa non e' quindi idonea, di per se' sola, a pervenire ad una precisa conoscenza dell'ordinamento e del pieno significato della portata delle singole norme. A tal fine bisogna risalire al significato intrinseco del fatto normativo, in cui la costituzione consiste. Ne consegue che i risultati dell'interpretazione condotta secondo i criteri di cui all'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale devono essere riferiti a quello che e' stato appena definito il significato del fatto normativo costituzionale e verificare che siano uno sviluppo ed una esplicitazione di questo, perche' questo e', come si e' visto, il rapporto tra "formazione consuetudinaria" e norma. Orbene, il significato intrinseco e' rivelato dai fini che la trasformazione della forma di stato (da monarchia assoluta a parlamentare) ha inteso realizzare e garantire, per comprendere i quali occorre brevemente delineare la struttura dello stato assoluto. Questo sorse quando la monarchia si pose come centro di unificazione della societa' medievale, costituendosi come "punto di rannodamento di tutti i comuni e delle loro forze politiche con l'annetterli agli stati generali e ponendosi a capo della gerarchia feudale" (Mosca, Teoria dei governi e stato parlamentare, Milano, pag. 95). Cio' ha comportato l'esercizio di poteri sovrani per l'organizzazione della societa' su base nazionale e la conseguente limitazione della liberta' dei cittadini, giustificata dall'esigenza dell'organizzazione statale. Tali limitazioni della liberta' non erano pero' strettamente in funzione delle necessita' organizzative dello stato, provenendo da un centro di potere che, pur avendo determinato la formazione della societa' civile su base nazionale, non ne era diretta espressione e risentiva dell'influenza dei ceti legati ai privilegi feudali. Quando il Parlamento, che rappresentava il terzo stato, si pose come forza politica, il potere politico assunse il carattere della rappresentativita': gli organi dello stato furono cioe' espressione della societa' civile. Cio' pero' non significa che il potere politico divenne una estrinsecazione dell'istituzione statale, reggendosi questa, al contrario, sul potere statale, come chiarito in precedenza, ma che il governo deve avere la fiducia del Parlamento, cui e' attribuita la rappresentanza degli interessi generali. La funzione del Parlamento e' quindi soprattutto quella di determinare la misura dell'imposizione fiscale in ragione delle effettive esigenze dello stato e di individuare quali comportamenti siano contrari all'interesse generale in misura talmente rilevante da porre in pericolo la conservazione ed il progresso della societa', si' da rendere necessaria la privazione della liberta', cioe' di quel bene fondamentale alla cui tutela e' in ultima analisi predisposta la costituzione. VI. - Il significato del principio di legalita' e l'interpretazione dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Dalle superiori considerazioni derivano due importanti conseguenze: l'esatto contenuto del principio di legalita' (privazione della liberta' personale in forza di un atto normativo emanato dall'organo che rappresenta gli interessi generali) ed il suo valore normativo. Cio' e' stato possibile attraverso una revisione critica del concetto di costituzione materiale che, da un lato ha fatto venir meno le preoccupazioni della dottrina in ordine al riferimento ai fini delle forze depositarie del potere in un dato momento storico, necessariamente contingenti; dall'altro ha consentito l'esatta individuazione e l'attribuzione del valore di norma a quei motivi essenziali del regime politico (superando l'obiezione rivolta al Mortati (Guarino, I decreti luogotenenziali. Sulla normativita' della costituzione materiale, Foro it., 1947, pag. 118), secondo cui "la volonta' delle forze politiche dominanti (concetto da precisare) in tanto ha un rilievo effettivo, in quanto riesce a tradursi in norme appartenenti a fonti formali o si impone di fatto", e fornendo il criterio da cui scaturisce la sostanziale omogeneita' fra i due fatti normativi, la cui determinazione si e' resa necessaria al fine di evitare che "i tentativi di identificare la materia costituzionale suscitino una impressione di arbitrarieta' non essendo diretti da criteri forniti di validita' generale .. ed (appaiano) inconsapevolmente ispirati a quei presupposti ideologici e politici, che pure teoricamente sono proclamati irrilevanti nel mondo del diritto" (Mortati, La Costituzione, citata pagg. 27 e 28). Possiamo dunque concludere che il principio di legalita' e' uno dei cardini dello stato parlamentare ed uno dei principi basilari della costituzione, e' connaturato allo stato democratico-parlamentare. Il riferimento ad esso e' quindi indispensabile per l'interpretazione della disposizione costituzionale di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione. L'interpretazione della norma sulla base dei criteri di cui all'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale porta come si e' visto al risultato di estendere la portata della norma solo alle leggi modificatrici in pejus di un'incriminazione precedente. Se si tiene pero' presente il significato del principio di legalita', puo' ravvisarsi un espresso richiamo ad esso in seno al precetto che l'art. 25, secondo comma, rivolge all'organo giudicante, il cui valore trascende quello di premessa al precetto stesso: nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge (il fatto che le norme penali possano essere contenute in decreti-legge o in decreti legislativi non contraddice al detto principio, trattandosi di atti aventi forza di legge, soggetti al controllo preventivo o successivo del Parlamento). Il riferimento al significato del principio di legalita' si ritrova quindi nella stessa formulazione letterale dell'art. 25, secondo comma, della Costituzione; se infatti nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che non sia entrata in vigore prima del fatto commesso, ne deriva che nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge e questo, come si e' visto, e' il significato del principio di legalita'. Ne consegue che la norma puo' essere espressa nel seguente modo: nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge; la legge deve essere entrata in vigore prima del fatto commesso. Quest'ultima considerazione e' di fondamentale importanza per la natura giurisdizionale del controllo operato dalla Corte sulle leggi poiche' l'interpretazione deve seguire i criteri di cui all'art. 12 delle preleggi, muovendo dall'interpretazione letterale e giungendo a risultati che non contraddicano al principio di legalita'. In altri termini, se la legge costituzionale e' l'esplicazione, lo sviluppo e l'attuazione dei principi costituzionali, il risultato dell'interpretazione della prima non puo' contraddire i secondi, sicche' tra le varie interpretazioni possibili deve essere adottata quella conforme ai principi stessi. VII. - Principio di legalita' e principio della non ultra attivita'. Il problema che adesso si pone e' se il cosiddetto principio di non ultrattivita' sia logicamente e letteralmente compreso nel principio di legalita'. A tale quesito va data risposta positiva in quanto, fondandosi la legittimazione della potesta' punitiva sulla valutazione del Parlamento intorno alla particolare rilevanza che assume la lesione di interessi generali in conseguenza di determinati fatti, quando tale particolare rilevanza non sia piu' riconosciuta, la potesta' non ha piu' legittimazione, sicche' cessano l'esecuzione e gli effetti penali della condanna e non puo' essere emessa sentenza di condanna anche se i fatti sono stati commessi quando la legge era in vigore. Chiarito il principio sottostante alla norma, risulta evidente il completo significato della stessa, che comprende anche la non ultrattivita': se nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge, nessuno puo' essere punito se la legge non e' in vigore, indipendentemente dal fatto che sia stata abrogata o non sia mai esistita. Il principio della non ultrattivita' e' dunque intrinseco al principio di legalita'. La ragione per cui il legislatore costituente ha reso esplicito solo il principio dell'irretroattivita' appare evidente se si considera che in caso contrario il giudice, cui e' fatto obbligo di applicare la legge in vigore, avrebbe dovuto conseguentemente irrogare la sanzione penale nei confronti del cittadino per un fatto commesso prima dell'entrata in vigore della legge stessa. Tale obbligo quindi, che non esiste per la legge mai emanata od abrogata, andava espressamente escluso. VIII. - Esclusione del carattere "contingente" delle leggi penali. Le leggi penali finanziarie d'altra parte non possono essere considerate "leggi contingenti" equiparabili sotto il profilo dell'efficacia nel tempo alle leggi eccezionali (ne' la Corte ha argomentato in tal senso nella citata sentenza), perche' legate alle mutevoli esigenze fiscali dello stato e destinate quindi a modificarsi frequentemente nel tempo in quanto tutte le leggi dello stato hanno tali caratteristiche "(sorgendo) sempre in occasione di una data necessita' sociale da tutelare (durando) finche' questa necessita' esista e (cessando) per abrogazione quando questa scompare". (App. Bari 13 agosto 1925, Foro it., 1926 II, 77). Orbene, tale caratteristica nelle leggi penali e' forse ancor piu' evidente se si considera che vengono emanate quando il Parlamento ritiene particolarmente lesivi dell'interesse generale determinati comportamenti, sicche' la sanzione penale e' legata a due condizioni: la lesione dell'interesse generale e la valutazione della particolare rilevanza della stessa da parte dello stato, anche se l'intrinseca natura antisociale di molti fatti, rende obbligata la scelta del Parlamento. IX. - Non manifesta infondatezza e rilevanza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 20 della legge n. 4/1929 in relazione all'art. 25, secondo comma, della Costituzione. Per le superiori considerazioni la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4, nella parte in cui prevede che le disposizioni penali delle leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, ancorche' le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione, in relazione all'art. 25, secondo comma, della Costituzione interpretato alla luce dei criteri sopra richiamati, non appare manifestamente infondata. La questione e' altresi' rilevante in quanto, essendo stata in esito al dibattimento raggiunta la prova che l'imputato ha commesso il fatto (contrabbando di Kg 1,6 di tabacchi lavorati esteri in data 24 novembre 1992) ai sensi dell'art. 20 della predetta legge, dovrebbe applicarsi la sanzione della multa prevista dall'art. 282 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, pur essendo quest'ultimo stato modificato dalla legge 28 dicembre 1993, n. 562, che non prevede piu' come reato le violazioni finanziarie punite con la sola multa, nonche' dalla legge 18 gennaio 1994, n. 50, che prevede come reato il contrabbando di tabacco lavorato estero in quantita' superiore ai Kg 15.